TESTO DELLA
CONVERSAZIONE DEL SANTO PADRE CON IL CLERO DI BELLUNO-FELTRE E
TREVISO TENUTASI AD AURONZO DI CADORE NELLA CHIESA DI SANTA GIUSTINA IL 24
LUGLIO 2007
D.
- Santità, sono don Claudio, volevo farle una domanda circa la formazione
della coscienza, in particolare riguardo alle giovani generazioni, perché
oggi formare una coscienza coerente, una coscienza retta, sembra sempre più
difficile. Si scambia il bene e il male con il sentirsi bene e il sentirsi
male, l’aspetto più emotivo. Allora volevo avere qualche consiglio da
parte sua. Grazie...
R. – Eccellenze, cari fratelli, innanzitutto vorrei esprimervi la mia
gioia e la mia gratitudine per questo bell’incontro. Ringrazio i due
Vescovi, Sua Eccellenza Andrich e Sua Eccellenza Mazzocato, per
quest’invito. A tutti voi che siete venuti così numerosi in tempo di
vacanze il mio sentito grazie. Vedere una chiesa piena di sacerdoti è
incoraggiante, perché vediamo che i sacerdoti ci sono. La Chiesa vive,
anche se i problemi crescono nel nostro tempo e proprio nel nostro
Occidente. La Chiesa è sempre viva e con sacerdoti che realmente
desiderano annunciare il Regno di Dio, cresce e resiste a queste
complicazioni, che vediamo nella nostra situazione culturale di oggi.
Adesso, questa prima domanda riflette un poco un problema della situazione
culturale in Occidente, perché il concetto di coscienza negli ultimi due
secoli si è trasformato profondamente. Oggi prevale l’idea che
razionale, che parte della ragione, sarebbe solo quanto è quantificabile.
Le altre cose, cioè le materie della religione e della morale, non
entrerebbero nella ragione comune, perché non verificabili, o, come si
dice, non falsificabili nell’esperimento. In questa situazione, dove
morale e religione sono quasi espulse dalla ragione, l’unico criterio
ultimo della moralità e anche della religione è il soggetto, la
coscienza soggettiva che non conosce altre istanze. Solo il soggetto, alla
fine, con il suo sentimento, le sue esperienze, eventuali criteri che ha
trovato, decide. Ma così il soggetto diventa una realtà isolata, e
cambiano così, come Lei ha detto, di giorno in giorno, i parametri.
Nella tradizione cristiana "coscienza" vuol dire con-scienza:
cioè noi, il nostro essere è aperto, può ascoltare la voce
dell’essere stesso, la voce di Dio. La voce, quindi, dei grandi valori
è iscritta nel nostro essere e la grandezza dell’uomo è proprio che
non è chiuso in sé, non è ridotto alle cose materiali, quantificabili,
ma ha un’interiore apertura per le cose essenziali, la possibilità di
un ascolto.
Nella profondità del nostro essere possiamo ascoltare non solo i bisogni
del momento, non solo le cose materiali, ma ascoltare la voce del Creatore
stesso e così si conosce cosa è bene e cosa è male. Ma naturalmente
questa capacità di ascolto deve essere educata e sviluppata. E proprio
questo è l’impegno dell’annuncio che noi facciamo in Chiesa:
sviluppare questa altissima capacità donata da Dio all’uomo di
ascoltare la voce della verità e così la voce dei valori. Quindi, direi
che un primo passo è di rendere coscienti le persone che la nostra stessa
natura porta in sé un messaggio morale, un messaggio divino, che deve
essere decifrato e che noi possiamo man mano conoscere meglio, ascoltare,
se il nostro ascolto interiore viene aperto e sviluppato. Adesso la
questione concreta è come fare questa educazione all’ascolto, come
rendere l’uomo capace di questo, nonostante tutte queste sordità
moderne, come far sì che ritorni questo ascolto, che sia realmente
avvenimento, l’Effatà del Battesimo, l’apertura dei sensi interiori.
Io, vedendo la situazione nella quale ci troviamo, proporrei una
combinazione tra una via laica e una via religiosa, la via della fede.
Tutti vediamo oggi che l’uomo potrebbe distruggere il fondamento della
sua esistenza, la sua terra, e quindi che non possiamo più semplicemente
fare con questa nostra terra, con la realtà affidataci, quanto vogliamo e
quanto appare nel momento utile e promettente, ma dobbiamo rispettare le
leggi interiori della creazione, di questa terra, imparare queste leggi e
obbedire anche a queste leggi, se vogliamo sopravvivere. Quindi, questa
obbedienza alla voce della terra, dell’essere, è più importante per la
nostra felicità futura che le voci del momento, i desideri del momento.
Insomma, questo è un primo criterio da imparare: che l’essere stesso,
la nostra terra, parla con noi e noi dobbiamo ascoltare se vogliamo
sopravvivere e decifrare questo messaggio della terra. E se dobbiamo
essere obbedienti alla voce della terra, questo vale ancora di più per la
voce della vita umana. Non solo dobbiamo curare la terra, ma dobbiamo
rispettare l’altro, gli altri. Sia l’altro nella sua singolarità come
persona, come mio prossimo, sia gli altri come comunità che vive nel
mondo e che deve vivere insieme. E vediamo che solo nel rispetto assoluto
di questa creatura di Dio, di questa immagine di Dio che è l’uomo, solo
nel rispetto del vivere insieme sulla terra, possiamo andare avanti. E qui
arriviamo al punto che abbiamo bisogno delle grandi esperienze morali
dell’umanità, che sono esperienze nate dall’incontro con l’altro,
con la comunità, l’esperienza che la libertà umana è sempre una
libertà condivisa e può funzionare soltanto se condividiamo le nostre
libertà nel rispetto di valori che sono comuni per tutti noi. Mi sembra
che con questi passi si possa far vedere la necessità di obbedire alla
voce dell’essere, di obbedire alla dignità dell’altro, di obbedire
alla necessità del vivere insieme le nostre libertà come una libertà, e
per tutto questo conoscere il valore che vi è nel permettere una degna
comunione di vita tra gli uomini. Così arriviamo, come già detto, alle
grandi esperienze dell’umanità, nelle quali si esprime la voce
dell’essere, e soprattutto alle esperienze di questo grande
pellegrinaggio storico del popolo di Dio, cominciato con Abramo, nel quale
troviamo non solo le esperienze umane fondamentali, ma possiamo, tramite
queste esperienze, sentire la voce del Creatore stesso che ci ama e che ha
parlato con noi. Qui, in questo contesto, rispettando le esperienze umane
che ci indicano la strada oggi e domani, mi sembra che i Dieci
Comandamenti abbiano sempre un valore prioritario, nel quale vediamo i
grandi indicatori di strada.
I Dieci Comandamenti riletti, rivissuti nella luce di Cristo, nella luce
della vita della Chiesa e delle sue esperienze, indicano alcuni valori
fondamentali ed essenziali: il quarto e il sesto comandamento insieme,
indicano l’importanza del nostro corpo, di rispettare le leggi del corpo
e della sessualità e dell’amore, il valore dell’amore fedele, la
famiglia; il quinto comandamento indica il valore della vita ed anche il
valore della vita comune; il settimo comandamento indica il valore della
condivisione dei beni della terra e la giusta condivisione di questi beni,
l’amministrazione della creazione di Dio; l’ottavo comandamento indica
il grande valore della verità. Se, quindi, nel quarto, quinto e sesto
comandamento abbiamo l’amore per il prossimo, nel settimo abbiamo la
verità.
Tutto questo non funziona senza la comunione con Dio, senza il rispetto di
Dio e la presenza di Dio nel mondo. Un mondo dove Dio non c’è diventa
in ogni caso un mondo dell’arbitrarietà e dell’egoismo. Solo se
appare Dio c’è luce, c’è speranza. La nostra vita ha un senso che
non dobbiamo produrre noi, ma che ci precede, ci porta. In questo senso,
quindi, direi, prendiamo insieme le vie ovvie che oggi anche la coscienza
laica può facilmente vedere, e cerchiamo di guidare così alle voci più
profonde, alla voce vera della coscienza, che si comunica nella grande
tradizione della preghiera, della vita morale della Chiesa. Così, in un
cammino di paziente educazione, possiamo, penso, tutti imparare a vivere e
a trovare la vera vita.
D. - Sono don Mauro. Santità, nello svolgimento
del nostro ministero pastorale siamo sempre più gravati da molte
incombenze. Aumentano gli impegni di gestione amministrativa delle
parrocchie, di organizzazione pastorale e di accoglienza delle persone in
situazioni difficili. Le chiedo su quali priorità orientare oggi il
nostro ministero di sacerdoti e di parroci, per evitare da un lato la
frammentarietà e dall’altro la dispersione? Grazie.
R. – E’ una questione molto realistica, è vero. Conosco anch’io un
poco questo problema, con tante pratiche che arrivano ogni giorno, con
tante udienze necessarie, con tanto da fare. Tuttavia, bisogna trovare le
giuste priorità e non dimenticare l’essenziale: l’annuncio del Regno
di Dio. Sentendo questa domanda, mi è venuto in mente il Vangelo di due
settimane fa sulla missione dei settanta discepoli. Per questa prima
grande missione che Gesù fa realizzare, a questi settanta discepoli il
Signore dà tre imperativi, che mi sembrano esprimere anche oggi
sostanzialmente le grandi priorità del lavoro di un discepolo di Cristo,
di un sacerdote.
I tre imperativi sono: pregate, curate e annunciate. Penso che dobbiamo
trovare l’equilibrio tra questi tre imperativi essenziali, tenerli
sempre presenti come cuore del nostro lavoro.
Pregate: cioè senza una relazione personale con Dio, tutto il resto non
può funzionare, perché non possiamo realmente portare Dio e la realtà
divina e la vera vita umana alle persone, se noi stessi non viviamo in una
relazione profonda, vera, di amicizia con Dio, in Cristo Gesù. Da qui la
celebrazione, ogni giorno, della Santa Eucaristia come incontro
fondamentale, dove il Signore parla con me ed io con il Signore, che si dà
nelle mie mani. Senza la preghiera delle Ore, nella quale entriamo nella
grande preghiera di tutto il Popolo di Dio, cominciando con i Salmi del
popolo antico rinnovato nella fede della Chiesa, e senza la preghiera
personale non possiamo essere buoni sacerdoti, ma si perde la sostanza del
nostro ministero. Quindi, essere un uomo di Dio, nel senso di un uomo in
amicizia con Cristo e con i suoi santi è il primo imperativo.
C’è poi il secondo. Gesù ha detto: curate gli ammalati, i dispersi,
quelli che hanno bisogno. E’ l’amore della Chiesa per chi è
emarginato, per chi soffre. Anche le persone ricche possono essere
interiormente emarginate e soffrire.
"Curare" si riferisce a tutti i bisogni umani, che sono sempre
bisogni che vanno in profondità verso Dio. E’ quindi necessario, come
si dice, conoscere le pecorelle, avere relazioni umane con le persone
affidateci, avere un contatto umano e non perdere l’umanità, perché
Dio si è fatto uomo e ha così confermato tutte le dimensioni del nostro
essere umano. Ma, come ho accennato, l’umano e il divino vanno sempre
insieme. A questo "curare" nelle sue molteplici forme,
appartiene, mi sembra, anche il ministero sacramentale. Il ministero della
riconciliazione è un atto di cura straordinario, del quale l’uomo ha
bisogno per essere sano fino in fondo. Quindi, queste cure sacramentali,
cominciando dal Battesimo, che è il rinnovamento fondamentale della
nostra esistenza, passando al Sacramento della riconciliazione e
all’unzione degli infermi. Naturalmente in tutti gli altri Sacramenti,
anche nell’Eucaristia, c’è una grande cura degli animi. Dobbiamo
curare i corpi, ma soprattutto – questo è il nostro mandato - le anime.
Dobbiamo pensare alle tante malattie, ai bisogni morali, spirituali che
oggi esistono e che dobbiamo affrontare, guidando le persone
all’incontro con Cristo nel sacramento, aiutandole a scoprire la
preghiera, la meditazione, lo stare in Chiesa silenziosamente con questa
presenza di Dio.
E poi annunciare.
Che cosa annunciamo noi? Annunciamo il Regno di Dio. Ma il Regno di Dio
non è una lontana utopia di un mondo migliore, che forse si realizzerà
tra 50 anni o chissà quando. Il Regno di Dio è Dio stesso, Dio
avvicinatosi e divenuto vicinissimo in Cristo. Questo è il Regno di Dio:
Dio stesso è vicino e dobbiamo noi avvicinarci a questo Dio che è
vicino, perché si è fatto uomo, rimane uomo ed è sempre con noi nella
sua Parola, nella Santissima Eucaristia e in tutti i credenti. Quindi,
annunciare il Regno di Dio vuol dire parlare di Dio oggi, rendere presente
la parola di Dio, il Vangelo che è presenza di Dio e, naturalmente,
rendere presente il Dio che si è fatto presente nella sacra Eucaristia.
Nell’intreccio di queste tre priorità e naturalmente tenendo conto di
tutti gli aspetti umani, dei nostri limiti che dobbiamo riconoscere,
possiamo realizzare bene il nostro sacerdozio. E’ importante anche
questa umiltà, che riconosce i limiti delle nostre forze. Quanto non
possiamo fare, deve fare il Signore. Ed anche la capacità di delegare, di
collaborare. Tutto questo sempre con gli imperativi fondamentali del
pregare, curare e annunciare.
D. – Mi chiamo don Daniele. Santità, il Veneto
è terra di forte immigrazione, con la presenza consistente di persone non
cristiane. Tale situazione pone le nostre diocesi di fronte ad un nuovo
compito di evangelizzazione al loro interno. Permane, però, una certa
fatica, perché dobbiamo conciliare le esigenze dell’annuncio del
Vangelo, con quelle di un dialogo rispettoso delle altre religioni. Quali
indicazioni pastorali potrebbe offrire? Grazie.
R. – Naturalmente voi siete più vicini a questa situazione. E in questo
senso forse non posso dare molti consigli pratici, ma posso dire che in
tutte le visite ad Limina, sia dei vescovi asiatici, africani,
latino-americani, sia da tutta l’Italia, sono sempre a confronto con
queste situazioni. Non esiste più un mondo uniforme. Soprattutto nel
nostro Occidente sono presenti tutti gli altri continenti, le altre
religioni, gli altri modi di vivere la vita umana. Viviamo un incontro
permanente, che forse ci assomiglia alla Chiesa antica, dove si viveva la
stessa situazione.
I cristiani erano una piccolissima minoranza, un grano di senape che
cominciava a crescere, circondato da diversissime religioni e condizioni
di vita. Quindi, dobbiamo reimparare quanto hanno vissuto i cristiani
delle prime generazioni.
San Pietro nella sua prima Lettera, al terzo capitolo, ha detto:
"Dovete essere sempre pronti a dare ragione della speranza che è in
voi". Così lui ha formulato per l’uomo normale di quel tempo, per
il cristiano normale, la necessità di combinare annuncio e dialogo. Non
ha detto formalmente: "Annunciate ad ognuno il Vangelo". Ha
detto: "Dovete essere capaci, pronti a dare ragione della speranza
che è in voi". Mi sembra che questa sia la sintesi necessaria tra
dialogo e annuncio. Il primo punto è che in noi stessi debba essere
sempre presente la ragione della nostra speranza. Dobbiamo essere persone
che vivono la fede e che pensano la fede, la conoscono interiormente. Così
in noi stessi la fede diventa ragione, diventa ragionevole. La meditazione
del Vangelo e qui l’annuncio, l’omelia, la catechesi, per rendere
capaci le persone di pensare la fede, sono già elementi fondamentali in
questo intreccio tra dialogo e annuncio. Noi stessi dobbiamo pensare la
fede, vivere la fede e come sacerdoti trovare modi diversi per renderla
presente, così che i nostri cattolici cristiani possano trovare la
convinzione, la prontezza e la capacità di dare ragione della loro fede.
Questo annuncio che trasmette la fede nella coscienza di oggi deve avere
molteplici forme. Senza dubbio, omelia e catechesi sono due forme
principali, ma poi ci sono tanti modi per incontrarsi - seminari della
fede, movimenti laicali, ecc. - dove si parla della fede e si impara la
fede. Tutto questo ci rende capaci, innanzitutto, di vivere realmente da
prossimi dei non cristiani - in prevalenza qui sono cristiani ortodossi,
protestanti e poi anche esponenti di altre religioni, i musulmani ed
altri. Il primo aspetto è vivere con loro, riconoscendo con loro il
prossimo, il nostro prossimo. Vivere, quindi, in prima linea l’amore del
prossimo come espressione della nostra fede. Io penso che questa sia già
una testimonianza fortissima e anche una forma di annuncio: vivere
realmente con questi altri l’amore del prossimo, riconoscere in questi,
in loro, il nostro prossimo, così che loro possano vedere: questo
"amore del prossimo" è per me. Se succede questo, più
facilmente potremo presentare la fonte di questo nostro comportamento, che
cioè l’amore del prossimo è espressione della nostra fede. Così nel
dialogo non si può subito passare ai grandi misteri della fede, benché i
musulmani abbiano una certa conoscenza di Cristo, che nega la sua divinità,
ma riconosce in Lui almeno un grande profeta. Hanno amore per la Madonna.
Quindi, ci sono elementi comuni anche nella fede, che sono punti di
partenza per il dialogo. Una cosa pratica e realizzabile, necessaria, è
soprattutto cercare l’intesa fondamentale sui valori da vivere. Anche
qui abbiamo un tesoro comune, perché vengono dalla religione abramitica,
reinterpretata, rivissuta in modi che sono da studiare, ai quali dobbiamo
infine rispondere. Ma la grande esperienza sostanziale, quella dei Dieci
Comandamenti, è presente e questo mi sembra il punto da approfondire.
Passare ai grandi misteri mi sembra un livello non facile, che non si
realizza nei grandi incontri. Il seme deve forse entrare nel cuore, così
che la risposta della fede in dialoghi più specifici possa maturare qua e
là. Ma ciò che possiamo e dobbiamo fare è cercare il consenso sui
valori fondamentali, espressi nei Dieci comandamenti, riassunti
nell’amore del prossimo e nell’amore di Dio, e così interpretabili
nei diversi settori della vita. Siamo almeno in un cammino comune verso il
Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio che è finalmente il Dio
dal volto umano, il Dio presente in Gesù Cristo. Ma se quest’ultimo
passo è da fare piuttosto in incontri intimi, personali o di piccoli
gruppi, il cammino verso questo Dio, dal quale vengono questi valori che
rendono possibile la vita comune, questo mi sembra sia fattibile anche in
incontri più grandi. Quindi, mi sembra che qui si realizzi una forma di
annuncio umile, paziente, che aspetta, ma che anche rende già concreto il
nostro vivere secondo la coscienza illuminata da Dio.
D. – Sono don Samuele. Abbiamo accolto il suo
invito a pregare, a curare e ad annunciare. Ci siamo permessi già di
prenderla sul serio nel prenderci cura della sua persona e in una
manifestazione di affetto le abbiamo portato qualche bottiglia di sano
vino della nostra terra, che le faremo avere attraverso le mani del nostro
vescovo. Vengo alla domanda. Assistiamo sempre più ad un ingente
incremento di situazioni di persone divorziate che si risposano, convivono
e che chiedono una mano per la loro vita spirituale a noi sacerdoti. Sono
persone che spesso portano con loro la sofferta domanda di accedere ai
sacramenti. Sono realtà che ci chiedono un confronto ed anche una
condivisione delle sofferenze che esse comportano. Le chiedo, Santo Padre,
con quali atteggiamenti umani, spirituali, pastorali poter mettere insieme
misericordia e verità. Grazie.
R. – Sì, è un problema doloroso e la ricetta semplice, che lo risolva,
certamente non c’è. Soffriamo tutti di questo problema, perché tutti
abbiamo vicino a noi persone in queste situazioni e sappiamo che per loro
è un dolore e una sofferenza, perché vogliono stare in piena comunione
con la Chiesa. Questo vincolo del matrimonio precedente è un vincolo che
riduce la loro partecipazione alla vita della Chiesa.
Cosa fare? Direi: un primo punto sarebbe naturalmente la prevenzione, per
quanto possibile. La preparazione al matrimonio, quindi, diventa sempre più
fondamentale e necessaria. Il Diritto Canonico suppone che l’uomo come
tale, anche senza grande istruzione, intenda fare un matrimonio secondo la
natura umana, come indicato nei primi capitoli della Genesi. E’ uomo, ha
la natura umana, e quindi sa che cosa sia il matrimonio. Intende fare
quanto gli dice la natura umana. Da questa presunzione parte il Diritto
Canonico. E’ una cosa che si impone: l’uomo è uomo, la natura è
quella e gli dice questo.
Ma oggi questo assioma secondo cui l’uomo intende fare quanto è nella
sua natura, un matrimonio unico, fedele, si trasforma in un assioma un
po’ diverso. "Volunt contrahere matrimonium sicut ceteri homines".
Non è semplicemente più la natura che parla, ma i "ceteri homines",
quanto fanno tutti. E quanto fanno oggi tutti non è più semplicemente il
matrimonio naturale, secondo il Creatore, secondo la creazione. Ciò che
fanno i "ceteri homines" è sposarsi con l’idea che un giorno
il matrimonio possa fallire e si possa così passare ad un altro, ad un
terzo e ad un quarto matrimonio.
Questo modello "come fanno tutti" diventa così un modello in
contrasto con quanto dice la natura. Diventa così normale sposarsi,
divorziare, risposarsi e nessuno pensa che sia una cosa che va contro la
natura umana o comunque si trova difficilmente uno che pensi così. Perciò
per aiutare ad arrivare realmente al matrimonio, non solo nel senso della
Chiesa, ma del Creatore, dobbiamo riparare la capacità di ascoltare la
natura. Ritorniamo al primo quesito, alla prima domanda. Riscoprire dietro
a ciò che fanno tutti, quanto ci dice la natura stessa, che parla in modo
diverso da questa abitudine moderna. Ci invita, infatti, al matrimonio per
la vita, in una fedeltà per la vita, anche con le sofferenze del crescere
insieme nell’amore. Quindi, questi corsi preparatori al matrimonio
dovrebbero essere un riparare la voce della natura, del Creatore, in noi,
riscoprire dietro a quanto fanno tutti i "ceteri homines",
quanto ci dice intimamente il nostro stesso essere. In questa situazione,
quindi, fra quanto fanno tutti e quanto dice il nostro essere, i corsi
preparatori devono essere un cammino di riscoperta, per reimparare quanto
il nostro essere ci dice, aiutare ad arrivare ad una vera decisione per il
matrimonio secondo il Creatore e secondo il Redentore. Quindi, questi
corsi preparatori per "imparare se stessi", per imparare la vera
volontà matrimoniale, sono di grande importanza. Ma non basta la
preparazione, le grandi crisi vengono dopo. Quindi, un permanente
accompagnare, almeno nei primi dieci anni, è molto importante. Perciò,
in parrocchia, bisogna non solo curare i corsi di preparazione, ma la
comunione nel cammino dopo, l’accompagnarsi, l’aiutarsi
reciprocamente. Che i sacerdoti, ma non solo, anche le famiglie, che hanno
già fatto queste esperienze, che conoscono queste sofferenze, queste
tentazioni, siano presenti nei momenti di crisi. E’ importante la
presenza di una rete di famiglie che si aiutano e diversi movimenti
possono recare un grande contributo. La prima parte della mia risposta
vede il prevenire, non solo nel senso di preparare, ma di accompagnare, la
presenza di una rete di famiglie che aiuti questa situazione moderna, dove
tutto parla contro la fedeltà a vita. Bisogna aiutare a trovare, ad
imparare anche con sofferenza, questa fedeltà. In caso, tuttavia, di
fallimento, che cioè gli sposi non si mostrino capaci di stare alla prima
volontà, c’è sempre la questione se fosse realmente una volontà, nel
senso del sacramento. E quindi c’è eventualmente il processo per la
dichiarazione di nullità. Se era un vero matrimonio e quindi non possono
risposarsi, la permanente presenza della Chiesa aiuta queste persone a
sopportare un’altra sofferenza. Nel primo caso, abbiamo la sofferenza di
superare questa crisi, di imparare una fedeltà sofferta e matura. Nel
secondo caso, abbiamo la sofferenza di stare in un vincolo nuovo, che non
è quello sacramentale e che non permette quindi la comunione piena nei
sacramenti della Chiesa. Qui, sarebbe da insegnare e da imparare a vivere
con questa sofferenza. Ritorneremo, a questo punto, nella prima domanda
dell’altra diocesi. Dobbiamo generalmente, nella nostra generazione,
nella nostra cultura, riscoprire il valore della sofferenza, imparare che
la sofferenza può essere una realtà molto positiva, che ci aiuta a
maturare, a divenire più noi stessi, più vicini al Signore che ha
sofferto per noi e soffre con noi. Anche in questa seconda situazione,
quindi, la presenza del sacerdote, delle famiglie, dei movimenti, la
comunione personale e comunitaria in queste situazioni, l’aiuto
dell’amore del prossimo, un amore molto specifico, è di grandissima
importanza. E penso che solo questo amore sentito della Chiesa, che si
realizza in un accompagnamento molteplice, possa aiutare queste persone a
riconoscersi amate da Cristo, membri della Chiesa anche se in una
situazione difficile, e così vivere la fede.
D. – Santità, io mi chiamo don Saverio e
quindi la domanda verte certamente sulle missioni. Ricorrono 50 anni
quest’anno dell’Enciclica Fidei donum. Accogliendo l’invito del
Papa, molti sacerdoti anche della nostra diocesi ed io compreso hanno
vissuto, abbiamo vissuto e stanno vivendo l’esperienza della missione ad
gentes. Esperienza, questa, senza dubbio straordinaria e che a mio modesto
parere potrebbero vivere tanti preti nell’ottica dello scambio tra
Chiese sorelle. Data però la riduzione numerica dei sacerdoti nei nostri
Paesi, come l’indicazione dell’Enciclica è ancora attuale oggi e con
quale spirito accoglierla e viverla sia da parte dei sacerdoti inviati,
sia da parte dell’intera diocesi? Grazie.
R. – Grazie. Vorrei anzitutto dire grazie a tutti questi sacerdoti fidei
donum e alle diocesi. Adesso ho avuto, come già accennato, tante visite
ad Limina sia dei vescovi dell’Asia, che dell’Africa e dell’America
Latina e tutti mi chiedono: "Abbiamo tanto bisogno di sacerdoti fidei
donum e siamo gratissimi per il lavoro che fanno, rendendo presente, in
situazioni spesso difficilissime, la cattolicità della Chiesa, la
visibilità del fatto che siamo una grande comunione, universale e c’è
un amore del prossimo lontano che diventa prossimo nella situazione del
sacerdote fidei donum. Questo grande dono che è stato realmente fatto in
questi 50 anni, lo ho sentito e visto quasi in modo palpabile in tutti i
miei dialoghi con i sacerdoti, che ci dicono "non pensate che noi
africani adesso siamo semplicemente autosufficienti; abbiamo sempre
bisogno della visibilità della grande comunione della Chiesa
universale". Direi che noi tutti abbiamo bisogno di questa visibilità
dell’essere cattolici, di un amore del prossimo che arriva da lontano e
trova così il prossimo. Oggi la situazione è cambiata nel senso che
anche noi riceviamo in Europa sacerdoti provenienti dall’Africa,
dall’America Latina, da altre parti dell’Europa stessa e questo ci
permette di vedere la bellezza di questo scambio dei doni, di questo dono
dall’uno all’altro, perché tutti abbiamo bisogno di tutti: proprio
così cresce il Corpo di Cristo. Per riassumere, vorrei dire che questo
dono era ed è un grande dono, percepito come tale nella Chiesa: in tante
situazioni che adesso non posso descrivere, in cui vi sono problemi
sociali, problemi di sviluppo, problemi di annuncio della fede, problemi
di isolamento, di bisogno della presenza di altri, questi sacerdoti sono
un dono nel quale le diocesi e le Chiese particolari riconoscono la
presenza di Cristo che si dona per noi e riconoscono al contempo che la
Comunione eucaristica non è solo comunione soprannaturale, ma diventa
comunione concreta in questo donarsi di sacerdoti diocesani, che si fanno
presenti in altre diocesi e che la rete delle Chiese particolari diventa
così una rete realmente di amore. Grazie a tutti coloro che hanno fatto
questo dono. Io posso soltanto incoraggiare i Vescovi ed i sacerdoti a
continuare con questo dono. Io so che adesso, con la mancanza di
vocazioni, in Europa diventa sempre più difficile fare questo dono; ma
abbiamo già l’esperienza che altri continenti, come l’India e
l’Africa soprattutto, ci danno anche da parte loro dei sacerdoti. La
reciprocità rimane sempre molto importante e proprio l’esperienza che
siamo Chiesa inviata al mondo e che tutti conoscono tutti ed amano tutti
è molto necessaria ed è anche la forza dell’annuncio. Così diventa
visibile che il grano di senape porta frutto e diventa sempre e di nuovo
un grande albero in cui gli uccelli del cielo trovano riposo. Grazie e
coraggio.
D. – Don Alberto. Santo Padre, i giovani sono
il nostro futuro e la nostra speranza: ma alle volte vedono nella vita non
un’opportunità, ma una difficoltà; non un dono per sé e per gli
altri, ma un qualcosa da consumare subito; non un progetto da costruire,
ma un vagare senza meta. La mentalità di oggi impone ai giovani di essere
sempre felici e perfetti, con la conseguenza che ogni piccolo fallimento
ed ogni minima difficoltà non sono più visti come motivo di crescita, ma
come una sconfitta. Tutto questo li porta spesso a gesti irrimediabili
come il suicidio, che provocano una lacerazione nel cuore di coloro che li
amano e dell’intera società. Cosa può dire a noi educatori che,
spesso, ci sentiamo con le mani legate e senza risposte? Grazie
R. – Lei mi sembra che abbia dato una precisa descrizione di una vita
nella quale Dio non appare. In un primo momento sembra che non abbiamo
bisogno di Dio, anzi che, senza Dio saremmo più liberi e il mondo sarebbe
più ampio. Ma dopo un certo tempo, nelle nostre nuove generazioni, si
vede cosa succede, quando Dio scompare. Come Nietzsche ha detto "La
grande luce si è spenta, il sole si è spento". La vita allora è
una cosa occasionale, diventa una cosa e devo cercare di fare il meglio
con questa cosa e usare la vita come fosse una cosa per una felicità
immediata, toccabile e realizzabile. Ma il grande problema è che se Dio
non c’è e non è il Creatore anche della mia vita, in realtà la vita
è un semplice pezzo dell’evoluzione, nient’altro, non ha senso di per
sé stessa. Ma io devo invece cercare di mettere senso in questo pezzo di
essere. Vedo attualmente in Germania, ma anche negli Stati Uniti, un
dibattito abbastanza accanito tra il cosiddetto creazionismo e
l’evoluzionismo, presentati come fossero alternative che si escludono:
chi crede nel Creatore non potrebbe pensare all’evoluzione e chi invece
afferma l’evoluzione dovrebbe escludere Dio.
Questa contrapposizione è un’assurdità, perché da una parte ci sono
tante prove scientifiche in favore di un’evoluzione che appare come una
realtà che dobbiamo vedere e che arricchisce la nostra conoscenza della
vita e dell’essere come tale. Ma la dottrina dell’evoluzione non
risponde a tutti i quesiti e non risponde soprattutto al grande quesito
filosofico: da dove viene tutto? e come il tutto prende un cammino che
arriva finalmente all’uomo?
Mi sembra molto importante, questo volevo dire anche a Ratisbona
nella mia lezione, che la ragione si apra di più, che veda sì questi
dati, ma che veda anche che non sono sufficienti per spiegare tutta la
realtà. Non è sufficiente, la nostra ragione è più ampia e può vedere
anche che la ragione nostra non è in fondo qualcosa di irrazionale, un
prodotto della irrazionalità, ma che la ragione precede tutto, la ragione
creatrice, e che noi siamo realmente il riflesso della ragione creatrice.
Siamo pensati e voluti e, quindi, c’è una idea che mi precede, un senso
che mi precede e che devo scoprire, seguire e che dà finalmente
significato alla mia vita. Mi sembra questo il primo punto: scoprire che
realmente il mio essere è ragionevole, è pensato, ha un senso e la mia
grande missione è scoprire questo senso, viverlo e dare così un nuovo
elemento alla grande armonia cosmica pensata dal Creatore. Se è così,
allora anche gli elementi di difficoltà diventano momenti di maturità,
di processo e di progresso del mio stesso essere, che ha senso dal suo
concepimento fino all’ultimo momento di vita. Possiamo conoscere questa
realtà del senso precedente a tutti noi, possiamo anche riscoprire il
senso della sofferenza e del dolore; certamente c’è un dolore che
dobbiamo evitare e che dobbiamo allontanare dal mondo: tanti dolori
inutili provocati dalle dittature, dai sistemi sbagliati, dall’odio e
dalla violenza. Ma c’è anche nel dolore un senso profondo e solo se
possiamo dare senso al dolore e alla sofferenza può maturare la nostra
vita.
Direi soprattutto che non è possibile l’amore senza il dolore, perché
l’amore implica sempre una rinuncia a me, un lasciare me, un accettare
l’altro nella sua alterità, implica un dono di me e, quindi, un uscire
da me stesso. Tutto questo è dolore, sofferenza, ma proprio in questa
sofferenza del perdermi per l’altro, per l’amato e quindi per Dio,
divento grande e la mia vita trova l’amore e nell’amore il suo senso.
Anche l’inscindibilità di amore e dolore, di amore e Dio sono elementi
che devono entrare nella coscienza moderna per aiutarci a vivere. In
questo senso direi che è importante far scoprire ai giovani Dio, far
scoprire loro l’amore vero che proprio nella rinuncia diventa grande e
così far scoprire loro anche la bontà interiore della sofferenza, che mi
rende più libero e più grande. Naturalmente per aiutare i giovani a
trovare questi elementi c’è sempre bisogno di compagnia e di commino,
sia la parrocchia o l’Azione Cattolica o un Movimento, solo in compagnia
con gli altri possiamo anche scoprire nelle nuove generazioni questa
grande dimensione del nostro essere.
D. – Sono don Francesco. Santo Padre, mi ha
molto colpito una frase che ha scritto nel suo libro "Gesù
di Nazaret": "Ma che cosa ha portato Gesù veramente, se non
ha portato la pace nel mondo, il benessere per tutti, un mondo migliore?
Che cosa ha portato? La risposta è molto semplice: ‘Dio. Ha portato
Dio’". Fin qui la citazione che trovo di una chiarezza e di una
verità disarmanti. La domanda è questa: si parla di nuova
evangelizzazione, di nuovo annuncio del Vangelo - questa è stata anche la
scelta principale del Sinodo della nostra diocesi di Belluno-Feltre – ma
cosa fare perché questo Dio, unica ricchezza portata da Gesù e che
spesso appare a tanti come avvolto nella nebbia, possa risplendere ancora
fra le nostre case e possa essere acqua che disseta anche i tanti che
sembrano non avere più sete? Grazie.
R. – Grazie. Domanda fondamentale. La domanda fondamentale del nostro
lavoro pastorale è come portare Dio al mondo, ai nostri contemporanei.
Evidentemente questo portare Dio è una cosa multidimensionale: già
nell’annuncio, nella vita e nella morte di Gesù, vediamo come si
sviluppa in tante dimensioni questo Unico. Mi sembra che dobbiamo sempre
tenere le due cose: da una parte l’annuncio cristiano, il cristianesimo
non è un pacchetto complicatissimo di tanti dogmi, così che nessuno può
conoscerli tutti; non è cosa solo per accademici, che possono studiare
queste cose, ma è cosa semplice: Dio c’è e Dio è vicino in Gesù
Cristo. Così Gesù Cristo stesso ha detto, riassumendo, è arrivato il
Regno di Dio. Questo annunciamo. Una cosa, in fondo, semplice. Tutte le
dimensioni che poi si mostrano sono dimensioni dell’unica cosa e non
tutti devono conoscere tutto, ma certamente devono entrare nell’intimo e
nell’essenziale, così si aprono con una sempre crescente gioia anche le
diverse dimensioni. Ma adesso come fare in concreto? Mi sembra che,
parlando del lavoro pastorale oggi, ne abbiamo già toccato i punti
essenziali. Ma per continuare in questo senso, portare Dio implica
soprattutto - da una parte - l’amore e - dall’altra - la speranza e la
fede. Quindi la dimensione della vita vissuta, la migliore testimonianza
per Cristo, il miglior annuncio è sempre la vita di veri cristiani. Se
vediamo famiglie nutrite dalla fede come vivono nella gioia, come vivono
anche la sofferenza in una profonda e fondamentale gioia, come aiutano gli
altri, amando Dio e il prossimo, mi sembra che questo sia oggi
l’annuncio più bello. Anche per me l’annuncio più confortante è
sempre quello di vedere le famiglie cattoliche o le personalità
cattoliche che sono penetrate dalla fede: risplende in loro realmente la
presenza di Dio e arriva questa "acqua viva" della quale Lei ha
parlato. Quindi l’annuncio fondamentale è proprio quello della vita
stessa dei cristiani. Naturalmente c’è poi l’annuncio della Parola.
Dobbiamo fare tutto perché la Parola sia ascoltata, sia conosciuta. Oggi
ci sono tante scuole della Parola e del colloquio con Dio nella Sacra
Scrittura, colloquio che diventa necessariamente anche preghiera, perché
uno studio puramente teorico della Sacra Scrittura è un ascolto solo
intellettuale e non sarebbe un vero e sufficiente incontro con la Parola
di Dio. Se è vero che nella Scrittura e nella Parola di Dio è il Signore
Dio Vivente che parla con noi, provoca la risposta e la preghiera, allora
le scuole della Scrittura devono essere anche scuole della preghiera, del
dialogo con Dio, dell’avvicinarsi intimamente a Dio. Quindi, tutto
l’annuncio. Poi naturalmente direi i Sacramenti. Con Dio vengono sempre
anche tutti i Santi. E’ importante – questo ci dice la Sacra Scrittura
sin dall’inizio – Dio non viene mai da solo, ma viene accompagnato e
circondato dagli Angeli e dai Santi. Nella grande vetrata di San Pietro
che raffigura lo Spirito Santo mi piace tanto il fatto che Dio è
circondato da una folla di angeli e di esseri viventi, che sono
espressione e emanazione – per così dire – dell’amore di Dio. Con
Dio, con Cristo, con l’uomo che è Dio e con Dio che è uomo, arriva la
Madonna. Questo è molto importante. Dio, il Signore, ha una Madre e nella
Madre riconosciamo realmente la bontà materna di Dio. La Madonna, la
Madre di Dio, è l’ausilio dei cristiani, è la nostra permanente
consolazione, è il nostro grande aiuto. Questo lo vedo anche nel dialogo
con i vescovi del mondo, dell’Africa ed ultimamente anche dell’America
Latina, che l’amore per la Madonna è la grande forza della cattolicità.
Nella Madonna riconosciamo tutta la tenerezza di Dio e, quindi, coltivare
e vivere questo gioioso amore della Madonna, di Maria, è un dono della
cattolicità molto grande. E poi ci sono i Santi, ogni luogo ha il suo
Santo. Questo va bene così, perché così vediamo i molteplici colori
dell’unica luce di Dio e del suo amore, che si avvicina a noi. Scoprire
i Santi nella loro bellezza, nel loro avvicinarsi nella Parola a me, poiché
in un determinato Santo, posso trovare tradotta proprio per me la Parola
inesauribile di Dio. E poi tutti gli aspetti della vita parrocchiale,
anche quelli umani. Non dobbiamo essere sempre nelle nuvole, nelle
altissime nuvole del Mistero, dobbiamo essere anche con i piedi per terra
e vivere insieme la gioia di essere una grande famiglia: la piccola grande
famiglia della parrocchia; la grande famiglia della diocesi, la grande
famiglia della Chiesa universale. A Roma posso vedere tutto questo, posso
vedere come persone provenienti da tutte le parti della terra e che non si
conoscono, in realtà si conoscono, perché sono tutti parte della
famiglia di Dio, sono vicini perché hanno tutto: l’amore del Signore,
l’amore della Madonna, l’amore dei Santi, la successione apostolica e
il successore di Pietro, i vescovi. Direi che questa gioia della
cattolicità, con i suoi molteplici colori, è anche la gioia della
bellezza. Abbiamo qui la bellezza di un bell’organo; la bellezza di una
bellissima chiesa, la bellezza cresciuta nella Chiesa. Mi sembra una
meravigliosa testimonianza della presenza e della verità di Dio. La Verità
si esprime nella bellezza e dobbiamo essere grati per questa bellezza e
cercare di fare tutto il possibile perché rimanga presente, si sviluppi e
cresca ancora. Così mi sembra che arrivi Dio, in modo molto concreto, in
mezzo a noi.
D. – Sono don Lorenzo, parroco. Santo Padre,
dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa: che siano specialisti
nel promuovere l’incontro dell’uomo con Dio. Non sono parole mie, ma
di Sua Santità in un intervento al clero. Il mio padre spirituale in
seminario, durante quelle faticosissime sedute di direzione spirituale, mi
diceva: "Lorenzino, umanamente ci siamo, ma…." e quando diceva
"ma" intendeva dire che a me piaceva più giocare al pallone che
fare l’adorazione eucaristica. E questo non faceva bene alla mia
vocazione, che non era bello contestare le lezioni di morale e di diritto,
perché i professori ne sapevano più di me. E con quel "ma"
chissà cos’altro voleva intendere. Ora lo penso in cielo e gli dico
comunque qualche requiem. Malgrado tutto ciò, sono 34 anni che sono prete
e ne sono anche felice: miracoli non ne ho fatti, disastri conosciuti
nemmeno, sconosciuti forse. "Umanamente ci siamo", per me è un
grande complimento. Ma avvicinare l’uomo a Dio e Dio all’uomo non
passa soprattutto attraverso quanto chiamiamo umanità che è
irrinunciabile, anche per noi preti? Grazie
R. - Direi semplicemente sì a quanto Lei ha detto alla fine. Il
cattolicesimo, un po’ semplicisticamente, è stato sempre considerato la
religione del grande et et: non di grandi esclusivismi, ma della sintesi.
Cattolico vuole dire proprio "sintesi". Perciò sarei contro una
alternativa o giocare al pallone o studiare la Sacra Scrittura o il
Diritto Canonico. Facciamo ambedue le cose. E’ bello fare lo sport, io
non sono un grande sportivo, ma magari andare in montagna mi piaceva
quando ero ancora più giovane, adesso faccio solo camminate molto facili,
ma sempre trovo molto bello camminare qui in questa bella terra che il
Signore ci ha dato. Quindi non possiamo sempre vivere nella meditazione
alta, forse un Santo nell’ultimo gradino del suo cammino terrestre può
arrivare a questo punto, ma normalmente viviamo con i piedi per terra e
gli occhi verso il cielo. Ambedue le cose ci sono date dal Signore e
quindi amare le cose umane, amare le bellezze della sua terra non solo è
molto umano, ma è anche molto cristiano e proprio cattolico.
Direi che – e mi sembra di averlo già accennato prima – ad una
pastorale buona e realmente cattolica appartiene anche questo aspetto:
vivere nell’et et; vivere l’umanità e l’umanesimo dell’uomo,
tutti i doni che il Signore ci ha dato e che abbiamo sviluppato e, nello
stesso tempo, non dimenticare Dio, perché alla fine la luce grande viene
da Dio e soltanto da Lui viene poi la luce che dà gioia a tutti questi
aspetti delle cose che ci sono. Quindi vorrei semplicemente impegnarmi per
la grande sintesi cattolica, per questo "et et"; essere
veramente uomo ed ognuno secondo i suoi doni e secondo il suo carisma
amare la terra e le belle cose che il Signore ci ha dato, ma essere anche
grati perché sulla terra splende la luce di Dio, che dà splendore e
bellezza a tutto il resto. Viviamo in questo senso gioiosamente la
cattolicità. Questa sarebbe la mia risposta.
D. – Mi chiamo don Arnaldo. Santo Padre,
esigenze pastorali e di ministero, oltre al diminuito numero di sacerdoti,
sollecitano i nostri vescovi a rivedere la distribuzione del clero, spesso
accumulando impegni e più parrocchie nella stessa persona. Ciò tocca la
sensibilità di tante comunità di battezzati e la disponibilità di noi
sacerdoti a vivere insieme – preti e laici – il ministero pastorale.
Come vivere questo cambiamento di organizzazione pastorale, privilegiando
la spiritualità del buon Pastore? Grazie, Santità…
R. – Sì, ritorniamo a questa questione delle priorità pastorali e come
oggi fare il parroco. Poco tempo fa, un Vescovo francese, che era
religioso e quindi non è stato mai parroco, mi ha detto: "Santità,
vorrei che Lei mi chiarisse che cosa è un parroco. Noi in Francia abbiamo
queste grandi unità pastorali con 5-6-7 parrocchie e il parroco diventa
un coordinatore di organismi, di lavori diversi", ma gli sembrava
che, essendo talmente occupato con il coordinamento di questi diversi enti
con i quali ha da fare, non avesse più la possibilità dell’incontro
personale con le sue pecorelle e lui, essendo Vescovo e quindi un grande
parroco, si domandava se questo sistema è giusto o se non dovremmo
ritrovare una possibilità affinché il parroco sia realmente parroco e
quindi pastore del suo gregge. Naturalmente non potevo immediatamente dare
una ricetta per risolvere questa situazione della Francia, ma il problema
si pone in generale, che il parroco nonostante nuove situazioni e nuove
forme di responsabilità non perda la vicinanza con la gente, l’essere
realmente in persona il pastore di questo gregge affidatogli dal Signore.
Le situazioni sono diverse: penso ai vescovi nelle loro diocesi con
situazioni molto diverse; essi devono vedere bene come assicurare che il
parroco rimanga pastore e non diventi un burocrate sacro. In ogni caso mi
sembra che una prima opportunità nella quale possiamo essere presenti
alle persone affidateci sia proprio la vita sacramentale:
nell’Eucaristia siamo insieme e possiamo e dobbiamo incontrarci; il
Sacramento della penitenza e della riconciliazione è un incontro
personalissimo; così come lo è il Battesimo che è un incontro personale
e non solo il momento del conferimento del Sacramento. Questi Sacramenti
direi che hanno tutti un contesto: battezzare vuole dire prima
catechizzare un po’ questa giovane famiglia, parlare con loro così che
il Battesimo sia anche un incontro personale ed un’occasione per una
catechesi molto concreta. Così come la preparazione alla Prima Comunione,
alla Cresima e al Matrimonio sono sempre occasioni dove realmente il
parroco, il sacerdote, in persona incontra le persone; è il predicatore
ed è l’amministratore dei Sacramenti in un senso che implica sempre la
dimensione umana. Il Sacramento non è mai soltanto un atto rituale, ma
l’atto rituale e sacramentale è il condensamento di un contesto umano
nel quale si muove il sacerdote, il parroco.
Mi sembra poi molto importante trovare dei sistemi giusti di delega. Non
è giusto che il parroco debba fare solo il coordinatore di organismi;
egli deve piuttosto delegare in modi diversi e certamente nei Sinodi – e
qui in diocesi avete avuto il Sinodo – si trova il modo per poter
liberare sufficientemente il parroco, affinché da una parte conservi la
responsabilità di questa totalità dell’unità pastorale affidatagli,
ma non si riduca sostanzialmente e soprattutto il burocrate che coordina,
ma uno che tiene in mano i fili essenziali, ma ha poi dei collaboratori.
Mi sembra che questo sia uno dei risultati importanti e positivi del
Concilio: la corresponsabilità di tutta la parrocchia: non è più
soltanto il parroco che deve vivificare tutto, ma, poiché tutti siamo
parrocchia, tutti dobbiamo collaborare ed aiutare, affinché il parroco
non rimanga isolato sopra come coordinatore, ma si trovi realmente come
pastore affiancato in questi lavori comuni nei quali, insieme, si realizza
e si vive la parrocchia. Direi quindi che - da una parte - questo
coordinamento e questa responsabilità vitale di tutta la parrocchia e –
dall’altra parte – la vita sacramentale e di annuncio come centro
della vita parrocchiale potrebbero consentire anche oggi, in circostanze
certamente più difficili, di essere il parroco che non conosce forse
tutti per nome, come il Signore ci dice del Buon Pastore, ma conosce
realmente le sue pecorelle ed è realmente il pastore che le chiama e che
le guida.
D. – Io ho l’ultima domanda e sarei molto
tentato di metterla via, perché si tratta di una domanda piccola e dopo
nove volte che vostra Santità ha saputo trovare la strada per parlarci di
Dio e portarci molto molto in alto, mi pare quasi banale e povero quello
che sto per chiederle, ma ormai lo faccio. Si tratta di una parola per
quelli della mia generazione, per noi che ci siamo preparati durante gli
anni del Concilio, poi siamo partiti con entusiasmo e forse anche con la
pretesa di cambiare il mondo, abbiamo anche lavorato tanto ed oggi siamo
un po’ in difficoltà, perché stanchi, perché non si sono realizzati
molti sogni ed anche perché ci sentiamo un po’ isolati. I più anziani
ci dicono "Vedete che avevamo ragione noi ad essere più
prudenti" ed i giovani qualche volta ci trattano da "nostalgici
del Concilio". La nostra domanda è questa: "Possiamo ancora
portare un dono alla nostra Chiesa, specialmente con quell’attaccamento
alla gente che ci sembra ci abbia contraddistinto? Ci aiuti a riprendere
speranza e serenità….
R. – Grazie, è una domanda importante e che io conosco molto bene.
Anch’io ho vissuto i tempi del Concilio, essendo nella Basilica di San
Pietro con grande entusiasmo e vedendo come si aprivano nuove porte e
pareva realmente essere la nuova Pentecoste, dove la Chiesa poteva
nuovamente convincere l’umanità, dopo l’allontanamento del mondo
dalla Chiesa nell’Ottocento e nel Novecento, sembrava si rincontrassero
di nuovo Chiesa e mondo e che rinascesse nuovamente un mondo cristiano ed
una Chiesa del mondo e veramente aperta al mondo. Abbiamo tanto sperato,
ma le cose in realtà si sono rivelate più difficili. Tuttavia rimane la
grande eredità del Concilio, che ha aperto una strada nuova, è sempre
una magna charta del cammino della Chiesa, molto essenziale e
fondamentale.
Ma perché è andata così? Prima vorrei forse cominciare con
un’osservazione storica. I tempi di un post-Concilio sono quasi sempre
molto difficili. Dopo il grande Concilio di Nicea - che per noi è
realmente il fondamento della nostra fede, di fatto noi confessiamo la
fede formulata a Nicea – non è nata una situazione di riconciliazione e
di unità come aveva sperato Costantino, promotore di tale grande
Concilio, ma una situazione realmente caotica di lite di tutti contro
tutti.
San Basilio
nel suo libro sullo Spirito Santo paragona la situazione della Chiesa
dopo il Concilio di Nicea ad una battaglia navale di notte dove nessuno più
conosce l’altro, ma tutti sono contro tutti.
Era realmente una situazione di caos totale: così descrive con colori
forti il dramma del dopo Concilio, del dopo Nicea, San Basilio. Poi 50
anni dopo, per il Concilio primo di Costantinopoli, l’imperatore invita
San Gregorio Nazianzeno a partecipare al Concilio e San Gregorio
Nazianzeno risponde: No, non vengo, perché io conosco queste cose, so che
da tutti i Concili nasce solo confusione e battaglia, quindi non vengo. E
non è andato. Quindi non è adesso, in retrospettiva, una sorpresa così
grande come era nel primo momento per noi tutti digerire il Concilio,
questo grande messaggio. Immetterlo nella vita della Chiesa, riceverlo,
così che diventi vita della Chiesa, assimilarlo nelle diverse realtà
della Chiesa, è una sofferenza, e solo nella sofferenza si realizza anche
la crescita. Crescere è sempre anche soffrire, perché è uscire da uno
stato e passare ad un altro. E nel concreto del dopo-Concilio dobbiamo
constatare che vi sono due grandi cesure storiche.
Nel dopo-Concilio, la cesura del ‘68, l’inizio o l’esplosione -
oserei dire - della grande crisi culturale dell’Occidente. Era finita la
generazione del dopoguerra, una generazione che dopo tutte le distruzioni
e vedendo l’orrore della guerra, del combattersi e constatando il dramma
delle queste grandi ideologie che avevano realmente condotto le persone
verso il baratro della guerra, avevamo riscoperto le radici cristiane
dell’Europa e avevamo cominciato a ricostruire l’Europa con queste
ispirazioni grandi.
Ma finita questa generazione si vedevano anche tutti i fallimenti, le
lacune di questa ricostruzione, la grande miseria nel mondo e così
comincia, esplode la crisi della cultura occidentale, direi una
rivoluzione culturale che vuole cambiare radicalmente. Dice: non abbiamo
creato, in duemila anni di cristianesimo, il mondo migliore. Dobbiamo
ricominciare da zero in modo assolutamente nuovo; il marxismo sembra la
ricetta scientifica per creare finalmente il nuovo mondo. E in questo –
diciamo – grave, grande scontro tra la nuova, sana modernità voluta dal
Concilio e la crisi della modernità, diventa tutto difficile come dopo il
primo Concilio di Nicea. Una parte era del parere che questa rivoluzione
culturale era quanto aveva voluto il Concilio, identificava questa nuova
rivoluzione culturale marxista con la volontà del Concilio; diceva:
questo è il Concilio.
Nella lettera i testi sono ancora un po’ antiquati, ma dietro le parole
scritte sta questo spirito, questo è la volontà del Concilio, così
dobbiamo fare. E dall’altra parte, naturalmente, la reazione: così
distruggete la Chiesa. La reazione – diciamo – assoluta contro il
Concilio, la anti-conciliarità e – diciamo – la timida, umile ricerca
di realizzare il vero spirito del Concilio.
E come dice un proverbio "Se cade un albero fa grande rumore, se
cresce una selva non si sente niente perché si sviluppa un processo senza
rumore" e quindi durante questi grandi rumori del progressismo
sbagliato, dell’anti-conciliarismo cresce molto silenziosamente, con
tante sofferenze e anche con tante perdite nella costruzione di un nuovo
passaggio culturale, il cammino della Chiesa. E poi la seconda cesura
nell’89. Il crollo dei regimi comunisti, ma la risposta non fu il
ritorno alla fede, come si poteva forse aspettare, non fu la riscoperta
che proprio la Chiesa con il Concilio autentico aveva dato la risposta. La
risposta fu invece lo scetticismo totale, la cosiddetta post-modernità.
Niente è vero, ognuno deve vedere come vivere, si afferma un
materialismo, uno scetticismo pseudo-razionalista cieco che finisce nella
droga, finisce in tutti questi problemi che conosciamo e di nuovo chiude
le strade alla fede, perché è così semplice, così evidente. No, non
c’è nulla di vero. La verità è intollerante, non possiamo prendere
questa strada.
Ecco: in questi contesti di due rotture culturali, la prima, la
rivoluzione culturale del ’68, la seconda, la caduta potremmo dire nel
nichilismo dopo l’89, la Chiesa con umiltà, tra le passioni del mondo e
la gloria del Signore, prende la sua strada. Su questa strada dobbiamo
crescere con pazienza e dobbiamo adesso in un modo nuovo imparare che cosa
vuol dire rinunciare al trionfalismo. Il Concilio aveva detto di
rinunciare al trionfalismo – e aveva pensato al barocco, a tutte queste
grandi culture della Chiesa. Si disse: cominciamo in modo moderno, nuovo.
Ma era cresciuto un altro trionfalismo, quello di pensare: noi adesso
facciamo le cose, noi abbiamo trovato la strada e troviamo su di essa il
mondo nuovo. Ma l’umiltà della Croce, del Crocifisso esclude proprio
anche questo trionfalismo, dobbiamo rinunciare al trionfalismo secondo cui
adesso nasce realmente la grande Chiesa del futuro. La Chiesa di Cristo è
sempre umile e proprio così è grande e gioiosa. Mi sembra molto
importante che adesso possiamo vedere con occhi aperti quanto è anche
cresciuto di positivo nel dopo Concilio: nel rinnovamento della liturgia,
nei Sinodi, Sinodi romani, Sinodi universali, Sinodi diocesani, nelle
strutture parrocchiali, nella collaborazione, nella nuova responsabilità
dei laici, nella grande corresponsabilità interculturale e
intercontinentale, in una nuova esperienza della cattolicità della
Chiesa, dell’unanimità che cresce in umiltà e tuttavia è la vera
speranza del mondo. E così dobbiamo, mi sembra, riscoprire la grande
eredità del Concilio che non è uno spirito ricostruito dietro i testi,
ma sono proprio i grandi testi conciliari riletti adesso con le esperienze
che abbiamo avuto e che hanno portato frutto in tanti movimenti, tante
nuove comunità religiose. In Brasile
sono arrivato sapendo come si espandono le sette e come sembra un
po’ sclerotizzata la Chiesa cattolica; ma una volta arrivato ho visto
che quasi ogni giorno in Brasile nasce una nuova comunità religiosa,
nasce un nuovo movimento, non solo crescono le sette. Cresce la Chiesa con
nuove realtà piene di vitalità, non così da riempire le statistiche -
questa è una speranza falsa, la statistica non è la nostra divinità -
ma crescono negli animi e creano la gioia della fede, creano presenza del
Vangelo, creano così anche vero sviluppo del mondo e della società.
Quindi mi sembra che dobbiamo combinare la grande umiltà del Crocifisso,
di una Chiesa che è sempre umile e sempre contrastata dai grandi poteri
economici, militari ecc., ma dobbiamo imparare insieme con questa umiltà
anche il vero trionfalismo della cattolicità che cresce in tutti i
secoli. Cresce anche oggi la presenza del Crocifisso risorto, che ha e
conserva le sue ferite; è ferito, ma proprio così rinnova il mondo, dà
il suo soffio che rinnova anche la Chiesa nonostante tutta la nostra
povertà. E direi, in questo insieme di umiltà della Croce e di gioia del
Signore risorto, che nel Concilio ci ha dato un grande indicatore di
strada, possiamo andare avanti gioiosamente e pieni di speranza.
|